Perché le aziende (ma non solo loro) sprecano soldi nel metaverso

Perché le aziende (ma non solo loro) sprecano soldi nel metaverso

Quante volte, negli ultimi mesi, avete letto di qualche azienda che annunciava l’ingresso nel metaverso? Da un certo punto di vista, è normale: marchi, grandi catene, fornitori di servizi e non solo, puntano da sempre a cavalcare i vari trend tecnologici che si succedono (dai social all’intelligenza artificiale, fino alla blockchain), un po’ per mostrarsi innovativi e un po’ per ottenere benefici concreti.

In questo caso, però, gli annunci di ingressi nel metaverso, che anche in Italia si succedono a ritmo quasi quotidiano, sollevano parecchie domande. Prima di tutto, di quale metaverso stiamo parlando? Per quanto venga spesso raccontato (sui mass media, nei comunicati stampa, nelle presentazioni aziendali) come un unico ambiente digitale e immersivo in cui chiunque può trasferire una parte crescente della propria vita, le cose sono in realtà molto diverse.

Al posto di questo immaginario e unico metaverso, esistono oggi una marea di singole piattaforme, una diversa dall’altra e tutte assolutamente non comunicanti tra di loro. Alcune sono in realtà virtuale (come Horizon Worlds di Meta) e altre sfruttano invece un normale computer (come Zepeto), alcune sono basate su blockchain (come Decentraland) e altre sono invece di proprietà di qualche colosso della Silicon Valley, alcune nascono dal mondo dei videogiochi (come Fortnite) e altre sono pensate per il lavoro (come Spatial).

Secondo alcune analisi, ci sono più di 40 metaversi attualmente esistenti. Quando un’azienda annuncia l’ingresso nel metaverso, a quale sta facendo riferimento? Se non bastasse, spesso le aziende non sfruttano queste realtà, ma progettano una loro piattaforma proprietaria (spesso in realtà virtuale) da usare, per esempio, a fini di addestramento professionale. O per vendere auto, come fa Fiat. Un tempo magari si sarebbe banalmente parlato di simulazione (per i piloti o per i chirurghi), oggi anche in questi casi si preferisce usare il termine metaverso.

Ma se qualunque piattaforma, usando le tecnologie più diverse e con gli scopi più vari (socialità, lavoro, commercio, giochi, addestramento), rientra sotto l’etichetta metaverso, questo termine diventa talmente vago da perdere qualunque significato, generando solo una gran confusione su cosa il metaverso sia (o non sia) e per quali scopi si possa utilizzare.

E così, nel corso dei mesi, abbiamo assistito a improbabili eventi di Heineken su Decentraland (derisi soprattutto dalla stampa straniera), a studi di architettura che presentavano case per il metaverso con tanto di letti e bagni (senza che nessuno si chiedesse a cosa mai possa servire un bagno nel metaverso), a progetti immersivi di società la cui ragion d’essere è però proprio nelle relazioni vissute nel mondo fisico (è il caso del progetto di metaverso di Tinder, rapidamente abbandonato) e altro ancora.

Non solo c’è un esorbitante numero di diversissime piattaforme catalogate sotto la stessa etichetta, ma le aziende (timorose di perdere il trend tecnologico del momento) si stanno tuffando nel metaverso prima ancora di aver capito se il loro investimento possa davvero essere utile.

Recentemente, per esempio, uno studio legale italiano ha annunciato lo sbarco nel metaverso, attraverso il quale offre la possibilità di incontrare i legali in un ufficio in realtà virtuale. Ma qual è realmente il valore aggiunto di un’offerta del genere? Siamo sicuri che sia più confortevole comunicare con l’avatar di un avvocato indossando a lungo un visore per la realtà virtuale (che ci isola ed esclude da tutto ciò che ci circonda) invece di sfruttare la praticità di una videoconferenza su Zoom o Teams? È soltanto una trovata pubblicitaria per fare colpo?

Ancor più bizzarro è stato l’annuncio della Norvegia di stare aprendo, con la consulenza di Ernst&Young, un Ufficio Imposte all’interno di Decentraland (un ambiente non in realtà virtuale, ma in cui manovriamo un avatar tramite la tastiera del computer). Invece di sfruttare il digitale per eliminare le frizioni del mondo fisico, attraverso questi surrogati di metaverso stiamo paradossalmente replicando le frizioni fisiche nel mondo digitale. È più comodo compilare la dichiarazione dei redditi (o cercare informazioni in tema fiscale) all’interno di un sito o di una app ben fatti oppure muoverci con il nostro avatar in un ambiente digitale, entrare nell’edificio virtuale delle imposte e poi cercare l’ufficio di nostro interesse?

Il culmine di queste stranezze è però probabilmente il comunicato con cui l’Interpol (l’organizzazione internazionale delle forze dell’ordine) l’ottobre scorso ha annunciato anche il suo sbarco nel metaverso: “Il crimine si sta spostando sempre più online mentre il ritmo della digitalizzazione è in continua crescita. Come possono le forze dell’ordine continuare a proteggere le comunità e a garantire il rispetto della legge?”, si chiede l’Interpol nel comunicato.

La risposta, secondo l’Interpol, è la creazione di una piattaforma in realtà virtuale che riproduce il suo quartier generale e che chiunque può visitare indossando l’apposito visore. Se è vero che sempre più crimini avvengono nel mondo digitale (basti pensare agli attacchi informatici o alle violazioni della privacy), non si capisce come un’isolata riproduzione in realtà virtuale del quartier generale dell’Interpol possa essere di qualche utilità.

Se l’Interpol vuole esercitarsi alle sfide del metaverso ed evitare molestie, truffe, bullismo, furti d’identità e altro (rischi che effettivamente sono presenti e di cui per lo più si occupano i moderatori), ha molto più senso che il suo personale partecipi attivamente e con regolarità ai tanti metaversi già esistenti, invece di costruirsene uno privato e disabitato. In che modo tutto ciò possa servire a sventare una truffa su Decentraland o una molestia su Horizon Worlds non è per niente chiaro.

Ma perché sta avvenendo tutto ciò? Perché questa fretta, apparentemente irrazionale, di saltare sul treno del metaverso prima di avere capito di che cosa effettivamente si tratti e dove porti? Una ragione la si può individuare sempre nel comunicato dell’Interpol, in cui si spiega che (secondo Gartner, un’altra delle tante società di consulenza che troviamo sempre coinvolte in queste operazioni) nel 2026 una persona su 4 trascorrerà almeno un’ora al giorno nel metaverso. Ci si può forse lasciar sfuggire una simile opportunità?

Prima di tutto, bisognerebbe però capire che cosa significa trascorrere un’ora al giorno nel metaverso: giocando a Fornite o facendo riunioni di lavoro su Spatial? Investendo in criptovalute su The Sandbox o esercitandosi in una simulazione per chirurghi? Finché il termine metaverso è talmente sui generis da indicare tutto e il contrario di tutto, è impossibile affermare quanto tempo passeremo nel metaverso, quale sia il valore del metaverso e anche a che scopo le aziende dovrebbero investire in esso.

C’è solo un settore (la moda) che grazie agli storici legami con il mondo dell’intrattenimento ha capito fin dall’inizio come sfruttare la grande diffusione del social gaming (termine più circoscritto di metaverso, ma parzialmente sovrapponibile, con cui si indicano videogiochi online in cui le interazioni sociali hanno un ruolo importante). Senza dare troppo peso alle etichette del momento, Balenciaga, Gucci, Burberry, Nike e moltissime altre case di moda hanno investito nelle principali realtà del social gaming (Fortnite, Roblox, Animal Crossing, Minecraft) approfittando della volontà degli utenti di personalizzare gli avatar con accessori griffati. Investimenti chiari, con obiettivi precisi e che rispondono a un’effettiva richiesta da parte degli utenti, come dimostra il fatto che il mercato delle skin (le aggiunte estetiche che personalizzano il look dei personaggi) vale circa 40 miliardi di dollari all’anno.

Peraltro, le piattaforme più diffuse del social gaming possono contare su centinaia di milioni di utenti mensili, mentre i vari metaversi di cui fino a oggi si è parlato tantissimo sono in realtà semi-deserti: Horizon Worlds conta su 200mila utenti (in calo), The Sandbox è anch’esso attorno ai 200mila e il chiacchieratissimo Decentraland non supera i 60mila (e chissà quanti saranno norvegesi interessati all’ufficio delle imposte virtuale?). Numeri microscopici, che mostrano come l’attenzione mediatica sia enormemente superiore all’interesse effettivo degli utenti.

Tra vaghezza del termine, investimenti dubbi e scarsissima partecipazione effettiva, prima di tuffarsi nel metaverso bisognerebbe chiedersi chi abbia davvero da guadagnare da operazioni commerciali azzardate, che sembrano fare il gioco solo delle aziende produttrici e delle società di consulenza. Come ha perentoriamente scritto l’esperto di videogiochi James Whatley su The Drum, “chiunque vi dica che sta facendo qualcosa nel metaverso o non ha idea di cosa stia parlando oppure vi sta volontariamente fuorviando”.

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