Le foto dei miei figli sono al sicuro su Internet?

Le foto dei miei figli sono al sicuro su Internet?

Dai giochi al parco al primo giorno di scuola, e vacanze, merende, recite, feste e compleanni. Tutti momenti ordinari e straordinari della vita di un bambino, immortalati e incollati digitalmente sui profili Facebook, Instagram e TikTok di mamme e papà. I social network sono diventati i nuovi album di famiglia, e non c’è nulla di più naturale di un genitore che si vanta dei figli. Ma quali conseguenze possono derivare dal postare sui social foto e video dei propri bambini?

Che cos’è lo sharenting?

Occorre intanto dare un nome alle cose. A questo ci ha pensato, dieci anni fa, il giornalista Steven Leckart che, sulle pagine del Wall Street Journal, coniava il termine “oversharenting” (più diffuso però come “sharenting”). È stato così descritto in una sola parola il fenomeno dell’eccessiva e costante condivisione sui social media (“over-share”) da parte dei genitori (“parenting”) di contenuti multimediali riguardanti la vita dei figli. 

Non si tratta di qualcosa di assolutamente inedito, sia chiaro. In passato c’erano album fotografici, videocassette, diapositive e cornici in bella vista nel soggiorno. A essere cambiato è il mezzo, con il passaggio dall’analogico al digitale, e dunque dalla dimensione privata di una stanza a quella pubblica della piazza virtuale.

I numeri

Nel 2021, secondo i dati raccolti da Security.org, il 77% dei genitori ha condiviso storie, video o immagini dei figli sui social media (nell’80% dei casi ciò è avvenuto con l’indicazione dei veri nomi dei minori). Un dato confermato da un’analisi pubblicata nel 2020 da Pew Research: l’82% dei genitori che utilizzano i social media pubblica foto, video o altre informazioni sui propri pargoli. Qualche anno prima, e più precisamente nel 2016, uno studio commissionato da Nominet a The Parent Zone ha rivelato che mamme e papà postano quasi 1500 foto dei figli prima che questi compiano cinque anni, con una media di circa 300 immagini all’anno. Ancora prima, e arriviamo al 2013, il sito Posterista calcolavache le foto di più di due terzi dei neonati vengono diffuse online entro un’ora dal parto (per l’esattezza, 57,9 minuti). Quanto all’Italia, un’indagine esplorativa pubblicata nel 2017 ha svelato che il 68% delle mamme intervistate ha postato sulla propria pagina personale di Facebook foto dei propri figli e, tra queste, il 62% condivide almeno da 1 a 4 scatti nell’arco di quattro settimane.

Furti di identità e malintenzionati

Secondo le previsioni della Barclays Bank, l’upload indiscriminato di contenuti multimediali con protagonisti i nostri bambini sarà la causa dei due terzi dei furti di identità che i giovani dovranno affrontare entro la fine del decennio. Ciò produrrà 7,4 milioni di questi eventi ogni anno entro il 2030, per un costo di 667 milioni di sterline l’anno.

Le informazioni condivise sui social potrebbero poi consentire a qualche malintenzionato di risalire alle abitudini e agli spostamenti dei più giovani. Questo potrebbe avvenire sia a causa di una mossa esplicita del genitore – che ad esempio pubblica una foto indicando l’esatta posizione in cui è stata scattata – sia per mezzo di una sua attività implicita. Ossia attraverso i metadati, informazioni generalmente associate a un’immagine nel momento in cui viene scattata, come una sorta di etichetta invisibile, e che spesso includono anche il dato relativo alla posizione in cui la foto è stata fatta. Tali informazioni potrebbero essere conservate anche dopo la pubblicazione in Rete, consentendo così a chi abbia interesse e mezzi di carpirle per usarle ai più svariati fini. Qualche anno fa Owen Mundy, professore della Florida State University, ha mostrato in un esperimento  che, analizzando le immagini condivise pubblicamente con la parola “cat” ed estraendone le informazioni su latitudine e longitudine dei metadati, è possibile creare una mappa con le posizioni dei felini (o dei rispettivi proprietari, a seconda del protagonista dello scatto). A immaginare gli esiti di un simile esperimento con le foto collegate alla parola “figlio” non si avrebbe di certo la stessa espressione intenerita di chi naviga tra le immagini di gattini sparsi in tutto il mondo.

Pedopornografia e adescamento

Questi sono i rischi più comunemente associati allo sharenting. Fenomeni che, peraltro, hanno registrato una preoccupante crescita nel nostro Paese, come testimoniano i dati diffusi da Polizia di Stato e Save the Children: nel 2021 sono stati 5.316 i casi di pedopornografia trattati dalla Polizia Postale, con un aumento pari al 47% rispetto al 2020, registrandosi altresì una crescita nel numero dei minori approcciati sul Web.

Tornando allo sharenting, nel 2015 il Children’s eSafety Commissioner australiano stimava che le foto dei bambini pubblicate dai genitori rappresentano fino alla metà del materiale reperito su alcuni siti di condivisione pedopornografica. La manipolazione di immagini per tali riprovevoli finalità è del resto sempre più facile, grazie alla diffusione di tecniche come il deepfake, un aspetto preso in considerazione anche da una recente analisi dell’Eurispes, Istituto di Studi Politici Economici e Sociali, dedicato all’esposizione dei figli su Instagram.

Profilazione, bullismo e identità digitale

Le informazioni sui nostri figli potrebbero poi entrare nel grande calderone di dati masticati da sempre più evoluti algoritmi di profilazione impiegati per finalità commerciali. I bambini sarebbero così inquadrati come consumatori fin dalla tenera età e, in certi casi, ancor prima di nascere, vista la tendenza a postare anche i risultati delle ecografie.

Dalla pubblicazione di certi scatti potrebbero poi derivare episodi di bullismo o cyberbullismo: un sondaggio del 2018 del Pew Research Center ha stimato che il 59% degli adolescenti americani è stato vittima di atti di bullismo o di molestie online. C’è poi anche da considerare l’impatto psicologico dello sharenting sui bambini. Pensiamo allo sviluppo dell’identità, in particolare quella digitale. Come reagiranno i nostri figli quando, sbarcati per la prima volta sul pianeta social, si imbatteranno in una versione di sé già esistente, generata dalla narrazione per immagini di genitori e parenti? E in che modo potranno sviluppare il proprio sentimento di riservatezza se da quando erano in fasce hanno percepito come normale la continua ostensione della propria vita privata sul Web, magari condividendo anche le reazioni alla scarica di dopamina per ogni Like ricevuto da mamma e papà?

E i figli cosa ne pensano?

Segnali di disagio, in effetti, arrivano proprio dai più giovani, pronti a reclamare il proprio diritto alla privacy nei confronti dei genitori. A qualche anno fa risale il caso, molto discusso, di Apple Martin, figlia della star Gwyneth Paltrow. Dopo che la madre aveva condiviso un selfie che ritraeva anche lei, la piccola Apple ha lasciato un commento sotto la foto della mamma bacchettandola per non averle chiesto il consenso. In tempi recenti New York Times e BBC hanno raccolto le impressioni di molti di questi ragazzi. Un progetto lanciato lo scorso anno in Svizzera ha invece provato a cambiare prospettiva, mettendo al centro dell’obiettivo non più i figli ma i genitori.

Mamma, ti faccio causa!

C’è però chi è stato meno accomodante della giovane Apple. È successo, ad esempio, in Italia, quando il Tribunale di Roma ha condannato una madre a rimuovere da Internet tutte le immagini che ritraevano il figlio sedicenne, prevedendo anche il pagamento di una somma di diecimila euro in caso di non ottemperanza. Appena oltre confine, una diciottenne della Carinzia ha portato davanti al giudice i propri genitori per aver caricato su Facebook, senza il suo consenso, circa cinquecento foto che la ritraevano. Spostandosi nei Paesi Bassi, in seguito al ricorso proposto dalla figlia, una nonna è stata condannata a eliminare gli scatti dei nipoti pubblicati sul Web. Accanto alle cause intentate tra genitori per le foto dei figli diffuse da uno senza il consenso dell’altro (in questo senso sono diverse le pronunce, come quella del Tribunale di Mantova) ci sono dunque anche quelle degli adolescenti nei confronti degli adulti, a tutela del proprio diritto alla privacy.

A questo punto occorre però porsi una domanda. Fermo l’ineluttabile diritto di un figlio ad avanzare la propria istanza di giustizia – in una materia che, peraltro, registra un’interessante complessità, stante la pluralità di normative astrattamente rilevanti, prima tra tutte quella sulla privacy, il GDPR, davvero la via del tribunale non può essere evitata?

I consigli per i genitori

Come sempre, prevenire è meglio che curare. E in questo caso ciò significa anche educare. La professoressa Stacey Steinberg, autrice del libro Growing Up Shared (qui un suo TED Talk sull’argomento), propone di tenere a mente quattro concetti fondamentali quando si postano le foto dei propri figli. Tra questi c’è anche quello di attribuire ai bambini, anche ai più piccoli, un potere di veto. La stessa Steinberg suggerisce poi di mettere in atto una serie di ulteriori attenzioni, come leggere e familiarizzare con le privacy policy dei social media (in modo da conoscere tutti gli strumenti impiegabili a tutela della propria sfera di riservatezza) e tenere a mente i possibili effetti di ogni scatto sullo sviluppo psicologico del bambino. È importante anche non condividere foto con l’indicazione dell’esatta posizione in cui sono state scattate. Sarebbe una buona prassi anche eliminare i metadati delle immagini prima di diffonderle (esistono software a ciò dedicati).

Andrebbero poi evitate le foto in pose imbarazzanti o addirittura senza vestiti, così come occorrerebbe limitare la condivisione di ogni informazione che consenta di identificare il minore o le sue abitudini. Il Garante per la protezione dei dati personali, in un proprio vademecum, suggerisce ai genitori di adottare alcune semplici ma efficaci accortezze, come rendere irriconoscibile il viso del bimbo: a tal fine è possibile ricorrere a programmi per pixellare i volti (disponibili online) o, ancora più semplicemente, coprire le facce dei minori con delle emoticon. L’Authority suggerisce anche di limitare le impostazioni di visibilità dei contenuti caricati sui social, in modo che siano visualizzati solo da chi si conosce.

Soprattutto, si dovrebbe sempre aprire un dialogo con i figli, e ciò fin dai primi anni di vita. Condividere le foto dei propri bimbi su Facebook, Instagram e TikTok non è di per sé sbagliato o pericoloso. Anzi, può avare anche degli effetti positivi, come appunto quello di creare una dimensione di confronto su temi fondamentali, come il valore da attribuire alla propria privacy. Il punto sta allora nel come si condivide. Ed è compito di ogni genitore dare il buon esempio, perché è così che negli adulti di domani potrà germogliare un sentimento di rispetto e di valorizzazione dei diritti propri e altrui.

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