La carezza di una mano bionica

La carezza di una mano bionica

Per la prima volta Maria Fossati si è trovata a firmare un autografo. È successo sul palco del Web marketing festival di Rimini. Per lasciare la propria firma sulla maglietta del team IIT da lasciare in omaggio a Diletta Leotta, ha impugnato il pennarello con la sua mano bionica. Maria Fossati è una designer, nata con un’agenesia congenita, il suo avambraccio sinistro non si è formato. Lavora nel team dell’Istituto italiano di tecnologia per lo sviluppo di Softhand Pro, l’arto bionico dalla presa “soffice” che presto, dalla collaborazione tra chirurgia e biomeccanica, potrebbe restituire a molti, assieme all’uso meccanico, anche l’esperienza del tatto.

Una mano “gentile”

Softhand è stata concepita inizialmente per l’industria, con lo scopo di fornire ai robot una presa che si adattasse all’oggetto evitando il rischio di stritolarlo in una morsa da Terminator. E una cedevolezza simile a quella degli arti umani (urtare contro la mano rigida di un robot può fare molto male). Il passo successivo è stato progettare una protesi: “Ne ho usate molte da quando sono nata, quando ero molto più piccola avevo una specie di pinza, che usavo anche come ‘arma’ per pizzicare i miei compagni – racconta sorridendo Fossati, 41 anni, dottorato in Design al Politecnico di Milano. È una degli oltre 30 tester del prototipo sparsi in quattro centri di riabilitazione in tutto il mondo – li terrorizzavo”. 

La tecnologia ha fatto il suo corso. Ora la sua ‘mano robot’ ha due movimenti: apertura e chiusura. Lei li controlla contraendo i due muscoli residui al termine del braccio, gli impulsi sono catturati da due sensori che muovono le dita, tutte insieme. La sua stretta è decisa ma gentile, non può fare male.

Intelligenza meccatronica

Softhand Pro attende una seconda versione, con più motori per compiere movimenti più complessi, indipendenti, delle dita. La vera avanguardia però è all’orizzonte, la piena integrazione della protesi con il sistema nervoso. Assieme a Maria Fossati, sul palco c’era anche Manuel Catalano, ricercatore dell’Istituto italiano di tecnologia nel laboratorio Soft robotics for human cooperation and rehabilitation. Ha iniziato a lavorare alla softhand quasi dieci anni fa e ora vede “una nuova generazione di sistemi bionici che replicano il corpo umano”.  Il primo a “indossare” la sua mano bionica è stato proprio Catalano, allacciandola al braccio: “Dall’utilizzo di una mano adattabile che semplicemente si apre e si chiude si scopre la possibilità di compiere movimenti anche più complessi e nuove soluzioni” ricorda. Il meccanismo è molto semplice, nelle sue parole. Un filo che corre lungo il profilo delle dita e “distribuisce la forza come il differenziale delle ruote di un’automobile. Un’intelligenza embodied, meccanica ed elettronica. Unita al comando di un software”.   Fossati e Catalano sono stati raggiunti sul palco da AlterEgo (Ego, per gli amici). Il robot dell’IIT sviluppato con il Centro “E. Piaggio” dell’Università di Pisa. Lì accanto uno dei ricercatori del team lo controllava a distanza con dispositivi immersivi (visore e controlli indossabili). AlterEgo monta proprio due softhand per manipolare oggetti o aprire maniglie. Come il suo collega iCub, è sviluppato per una varietà di compiti, tra i quali l’assistenza da remoto e per essere guidato in zone di emergenza. Tecnologie simili nascono anche dall’esperienza fatta ad Amatrice, dove l’IIT sperimentò un robot simile all’interno del centro abitato colpito dal terremoto del 2016. Sul carrello spinto da AlterEgo in versione maggiordomo, c’erano alcuni bicchieri per una dimostrazione delle capacità di presa soffice della mano. È stata una delle prove con le quali Maria Fossati si è cimentata durante i Cybathlon 2020, le olimpiadi dei “cyborg”.  

Sentire il mondo

L’idea a cui ora si sta lavorando è quella di innestare la protesi collegandola al sistema nervoso, chirurgicamente. Un’operazione da ‘elettricista’, si tratta di ‘collegare bene i fili’: “Con un’operazione di reinnervazione possiamo prendere i nervi che sarebbero deputati al controllo di quell’arto che non c’è e collegarli a un muscolo, per esempio quello pettorale, per amplificarne il segnale – spiega Catalano, che è anche collaboratore di ricerca presso il Centro E. Piaggio, Università di Pisa e research fellow al Mayo Clinic (Rochester – USA) – creare così un’interfaccia, un biohub, tra il corpo e la protesi che può diventare bidirezionale. Non solo con funzioni di comando dell’arto, ma anche sensoriale”.  Un input, il comando, e un output: il senso del tatto. Questa potrebbe essere una vera rivoluzione, soprattutto per chi ha perso un arto e potrebbe tornare a “sentire”, toccando. Finora, la percezione tattile è stata ottenuta con collegamenti passando, per così dire, all’esterno, attraverso zainetti che elaborano il segnale e lo inviano al cervello che lo interpreta e lo trasforma in sensazione. Lo scopo del progetto europeo Synergy “Natural Bionics”, finanziato dal Centro europeo per la ricerca con quasi dieci milioni di euro, invece, è l’integrazione completa: “Con innesti di pelle particolarmente sensibile al tatto, per esempio quella dei piedi, si possono raccogliere segnali sulla durezza di un oggetto e la rugosità di una superficie – continua il ricercatore – e da questo hub arriva il cervello tramite lo stimolo di questo recettore naturale”.  

Tecnologia e neurochirurgia

Synergy “Natural Bionics” unisce il contributo di tre grandi istituti di ricerca e i rispettivi principal investigator. Oskar Aszmann della Medizinischen Universität di Vienna, per la parte chirurgica. Aszmann è stato tra i primi a effettuare un trapianto di mano e l’innesto di una protesi robotica. Dario Farina, dell’Imperial College di Londra, si occuperà della parte di elaborazione del segnale. Antonio Bicchi dell’IIT coordina il Soft robotics for human cooperation and rehabilitation, insieme al team di ricercatori e ingegneri di cui fa parte Catalano, lavora alla progettazione di Softhand Pro e altri arti bionici, un intero braccio e un’intera gamba.  I primi risultati sono incoraggianti: “Un primo innesto è già stato effettuato, e funziona – sottolinea Catalano – mentre la sperimentazione sensoriale ha dato buoni risultati in prove di laboratorio”. Il progetto andrà avanti fino ad almeno il 2024. 

Design e inclusione

Maria Fossati, nel suo ruolo di tester e di professionista specializzata in design inclusivo, lavora con gli ingegneri IIT per migliorare le caratteristiche di Softhand Pro. Anche in senso estetico: “Ho chiesto che avesse una finitura trasparente – spiega, indicando il guanto in silicone che lascia intravedere il meccanismo all’interno – e che quindi, a differenza delle altre protesi, non è l’imitazione di una mano. È un messaggio di accettazione, una dichiarazione d’amore e di trasparenza”. Fossati però non si sottoporrà all’operazione di innesto: “Io ci sono nata, per chi si trova ad avere un arto amputato è diverso. Perde qualcosa. Io invece sono cresciuta con questa mia normalità”.

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