I social “fatti in casa” della Russia

I social “fatti in casa” della Russia

Gli restano RuTube al posto di Youtube, Ya molodets invece di TikTok e la voce di Marusya al posto di quella di Siri. Social non propriamente brillanti, ma “made in Russia”, quindi perfetti. Almeno per il Cremlino, per la sua lotta ventennale contro l’internet libero. Una lotta che parte da un ritardo e dal crollo di un muro.

9 novembre 1989. Dissolto l’impero, centinaia delle migliori menti ingegneristiche del mondo che fino a quella sera hanno servito la grande madre Russia, si trovano senza una missione. E si buttano nelle imprese private. Creano i primi provider e server, ancora privi di contenuti accattivanti (tutto sommato sono ingegneri). I più creativi danno vita a pagine personali o riviste online, al primo forum (nel 1997) e al primo servizio mail (Mail.ru). La comunità russa online è anarchica, affamata e vivace: 55 milioni di blog, molti dei quali politici, che iniziano a riversare i loro contenuti sulle piattaforme in arrivo dall’Occidente.
Per 20 anni il Cremlino si disinteressa di internet. Poi arriva la fine del 2011. Nei Paesi arabi scoppiano le primavere. A Mosca e San Pietroburgo Vladimir Putin assiste alle manifestazioni contro le elezioni che l’hanno (ri)visto vincitore. Sono le proteste più dure dal crollo del muro e sono coordinate anche grazie a VKontakte, all’epoca 100 milioni di utenti (oggi 650). Il social è stato creato nel 2006 da Pavel Durov: prendete Mark Zuckerberg, ma più strano. 37 anni d’età, 17 miliardi di dollari, dieta vegana (quando deve risolvere un problema digiuna per giorni), fisico scultoreo (niente alcol, solo palestra). Quando l’Fsb (l’erede del Kgb) gli invia una lettera in cui gli chiede di chiudere i gruppi dei manifestanti sul social, lui pubblica la lettera su Twitter e ci allega la sua risposta: la foto di un cane con la felpa che fa la linguaccia. Tre giorni dopo, i funzionari del Fsb gli vanno a citofonare sotto casa.

È l’inizio di due cose. Primo: l’idea di Telegram, il servizio di messaggistica più usato in Russia. Mentre aspettava che gli ufficiali dei servizi russi se ne andassero, racconta, Durov realizzò di non avere un mezzo di comunicazione sicuro e criptato per messaggiare e chiedere aiuto a suo fratello. E così iniziò a svilupparne uno: Telegram, lanciato nel 2013. Il logo: un aeroplanino bianco su sfondo azzurro, simbolo di libertà. E Durov – oggi a Dubai – resta fedele a quel simbolo, opponendosi a qualsiasi richiesta di censura da parte di Mosca e resistendo persino a un bando di 2 anni della sua app tra 2018 e 2020.
Secondo: l’inizio della guerra di Putin alla rete libera. A differenza del governo di Pechino – che ha controllato e “accompagnato” lo sviluppo di internet sin dalla sua nascita – quello di Mosca si trova a voler controllare un internet ormai decentralizzato, internazionalizzato e radicato nella società russa. La strategia è triplice: censura, controllo, propaganda. Tra 2011 e 2022, Mosca approva una serie di leggi per restringere la libertà di internet: black list di siti web, intercettazioni telematiche, attacchi contro i social. Misure che fanno dell’internet russo il 13° meno libero al mondo, con punteggio nella classifica di Freedom House di 30/100 (peggio di Bielorussia e Sudan).
Quanto al controllo, Mosca ripete nella Rete la strategia usata per i media tradizionali: mettere al vertice di ogni piattaforma, testata online o social uomini fidati del Cremlino. Così, Durov viene fatto fuori prima dall’azionariato e poi dalle cariche del social VKontakte. La strategia, che aveva funzionato alla perfezione durante la guerra fredda, si rivela però porosa davanti a una struttura decentralizzata come internet, fatta di milioni di potenziali generatori di contenuti. Nel 2014, per esempio, la Russia viene tradita dai suoi stessi soldati. Che, mentre Mosca assicura il mondo che no, non ci sono truppe russe in Ucraina, postano felici e sorridenti foto e selfie direttamente oltre confine. Citizen journalism, ma dei militari. Censura e teste di legno non bastano. Servono i social di madrepatria, che rassicurino la nazione e prevengano viralità e proteste. C’è Gazprom media, il colosso di stato del gas che ha promesso di rilanciare il suo moribondo portale video RuTube, per farne il nuovo grande YouTube di madre Russia. E che a dicembre ha annunciato Ya molodets (qualcosa tipo “Sto alla grande”), un clone di TikTok. E c’è Marusya, che promette di essere la versione russa di Siri. È una delle 16 app “made in Russia” che secondo una legge del 2021 devono essere preinstallate in ogni telefono venduto nel Paese.

Prima della guerra, secondo lo Statista Global Consumer Survey il 68% degli utenti abituali russi usava Youtube, il 59% Instagram, il 37% Facebook. Oggi, gli resterà Marusya. «La strategia di Putin è chiudere gli utenti in una bolla di app russe», ha commentato il giornalista russo Andrei Soldatov, forse uno dei maggiori esperti mondiali sulla cybercensura di Mosca. «E potenzialmente potrebbe funzionare».

Francesco Oggiaro Digital journalist, è uno dei volti e soci di Will Italia. Racconta le basi del giornalismo sul suo TikTok. Cura Digital Journalism, newsletter con una community di migliaia di creativi digitali. A marzo è uscito il suo libro Sociability.

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