Dalla cibernetica alla robotica, le macchine dell’Iit che fanno progredire l’Italia

Dalla cibernetica alla robotica, le macchine dell’Iit che fanno progredire l’Italia

Giorgio Metta ha 51 anni, è direttore scientifico dell’Istituto italiano di Tecnologia dal 2019, ma ha iniziato a interessarsi di robotica da ben prima. Molto prima, ma non abbastanza prima per vederla nascere in Italia, come ci ha detto con un sorriso: “Nel nostro Paese, di quella che allora si chiamava cibernetica si parla da tempo, da molto prima che io fossi ricercatore”. Da quando? “Il matematico americano Norbert Wiener (uno dei padri di questa disciplina, ndr) venne invitato qui alla fine degli anni Sessanta, dunque più o meno da allora”.

Uno dei momenti più importanti nella storia della cibernetica italiana è stato il Progetto Finalizzato Robotica del Cnr, iniziato nel 1989 e arrivato a coinvolgere nel tempo oltre 600 ricercatori l’anno, impegnati nello studio e nella realizzazione di prototipi che permettessero di approfondire la struttura e la gestione dei robot e il loro controllo, anche attraverso sensori e attuatori.

Chiaramente, la nascita dell’Iit (che nel 2021 compie 16 anni) ha dato un’accelerata a tutto questo: “Abbiamo una vera e propria famiglia di robot, che si può dividere in 4 macroaree – ci ha spiegato Metta – C’è la robotica indossabile, cioè le macchine dedicate alla riabilitazione, come le protesi; ci sono i robot in grado di intervenire sulle scene di un disastro o di un incidente, che possono essere quadrupedi o anche centauri con ruote, braccia e mani, e quelli per la cosiddetta agricoltura di precisione”. Ancora: “Ci sono i robot usati per la chirurgia e c’è la soft robotics, macchine che simulano gli animali o le piante, che hanno un loro ciclo di vita a impatto zero, che sono in grado di autosostenersi e non inquinano e possono essere usate per il monitoraggio ambientale o per l’esplorazione dello Spazio”.

Il robot HyQReal 

Da iCub a R1, dal robot bambino a quello che cammina
Il più famoso di tutti è ovviamente iCub: svelato al mondo nel 2009, è un robot umanoide che sembra un bambino di 5 anni e nell’ultima versione è alto poco più di un metro, pesa 33 kg ed è dotato di 53 snodi di movimento, la maggior parte concentrati in braccia e mani per permettergli di prendere e manipolare gli oggetti; può vedere e sentire, è l’unico robot al mondo coperto di pelle artificiale, che gli permette di capire se e come viene toccato e reagire di conseguenza, ed è in grado di camminare anche da solo. Che per una macchina non è esattamente un compito facile. iCub è un robot, ma è anche una piattaforma di ricerca sulla robotica umanoide, che è open source e i cui aggiornamenti sono condivisi con 40 laboratori in Europa, Stati Uniti, Giappone e Corea del Sud, che la usano per gli studi sull’intelligenza artificiale.

iCub è il più noto fra i robot dell’Iit, ma non è il solo: c’è HyQReal, un quadrupede di alluminio e kevlar capace di camminare, correre, saltare, salire/scendere le scale, portare pesi, pensato per intervenire in situazioni di emergenza; c’è Centauro, che come dice il nome ha 4 zampe e busto umanoide e può anche eseguire compiti in cui sia richiesto l’uso della forza, come spezzare un’asse di legno o trasportare materiale, e anche lui servirà da supporto alle squadre di soccorso in caso di situazioni di pericolo per l’uomo o in ambienti ostili. E poi c’è R1, un prototipo di robot umanoide pensato per lavorare negli ospedali, nei negozi e anche nelle nostre case e dunque caratterizzato da un aspetto quanto più simile al nostro: testa, busto, due braccia e le ruote al posto delle gambe per permettergli di stare in piedi.

Il problema dello stare in piedi
Che, come si diceva, per i robot non è affatto facile: “È raro che un robot bipede non cada e non faccia disastri”, ha ammesso Metta. Spiegando che succede soprattutto per due motivi: “Per una questione di hardware, perché il corpo umano è fatto molto bene, è complicato da simulare e assorbe bene l’ambiente attraverso i muscoli e lo scheletro”. Soprattutto, per una questione di software: “Noi non cadiamo perché in qualche modo sappiamo prevedere che cosa succede mettendo un piede davanti all’altro, che cosa ci aspetta. Una macchina non può farlo, perché non ci sono ancora IA così evolute che glielo permettano”. Non ancora, almeno.

Comunque non c’è da prenderli in giro su questo, c’è da capirli: “Anche noi cadiamo, se non riusciamo ad anticipare quello che succederà, se incontriamo un gradino all’improvviso o se facciamo una scala di corsa”. Ma quindi, l’idea del robot annunciata da Musk è irrealizzabile? “Penso onestamente che sia difficile che lo si veda davvero nel 2022: per fare i loro robot bipedi, quelli di Boston Dynamics hanno impiegato 20 anni di tentativi e sono ancora indietro. E sono quelli più avanti di tutti”. Comunque per Metta la data di arrivo è poco rilevante: “Non è importante quando lo si farà, è importante che il percorso sia iniziato e che uno come Musk si sia preso un impegno del genere. Quando diceva che voleva andare nello Spazio, non gli credeva nessuno e anche se non ce l’ha fatta nei tempi annunciati all’inizio, alla fine ce l’ha fatta eccome. Ed è così che si progredisce e ci si evolve”.

Il robot Centauro 

Il futuro e la robotica positiva (anche nei film)
A proposito di questo, le macchine come si evolveranno, soprattutto dal punto di vista dell’intelletto? “Già oggi, le IA fanno cose incredibili e hanno raggiunto livelli di comprensione e risoluzione dei problemi che in certi casi sorprendono pure noi ricercatori”. E chissà che un giorno non arrivino a capire le nostre emozioni, come si vede al cinema e come un paio d’anni fa ci aveva anticipato Alessandra Sciutti, che dentro a Iit si occupa proprio dell’interazione uomo-robot, secondo cui “in futuro, includendo nell’analisi anche gli aspetti contestuali, possiamo auspicare di avere macchine che siano in grado di comprenderci più a fondo: avere un robot in grado di comprendere se qualcosa che ha fatto ci ha infastidito, garantisce un’interazione più fruttuosa ed efficace”. Secondo Metta, il punto non è tanto se le macchine saranno in grado di farlo, ma a quale scopo: “Dobbiamo capire come tutto questo possa aiutare noi umani. In caso di intervento sul luogo di un incidente, per esempio, sarebbe utile un robot in grado di comprendere sia che è successo un incidente sia che c’è una persona che sta male, anche solo dalle espressioni facciali”.

Il problema, comunque, non è nella potenza di calcolo né nel processore che permette alla macchina di agire e alle IA di ragionare: “È solo nella fase di allenamento degli algoritmi che sono alla base delle intelligenze artificiali, che servono super computer, molto potenti, molto grandi, molto costosi – ci ha spiegato Metta – Per usare quegli stessi algoritmi all’interno di un robot, basta invece un computer normale, anche piccolo e portatile”. Il segreto è nel cloud, perché “il robot raccoglie i dati sulla situazione che deve affrontare, che vengono elaborati nel cloud e poi gli tornano indietro con la risposta che gli permette di agire in modo corretto”.

Sperando che vada tutto bene, un po’ come succede in L’uomo bicentenario, che è uno fra i film sul tema preferiti dal direttore scientifico di Iit: “Un po’ perché è tratto da un racconto di Asimov, e non puoi fare questo lavoro se non ami Asimov; un po’ perché si parla di robotica in modo positivo, buono, senza distopie e drammi”. Cosa che difficilmente succederà in un’altra opera molto attesa sia da Metta sia da più o meno tutti gli appassionati di fantascienza: “Sono curioso di vedere come sarà Foundation, la serie tratta dai romanzi del Ciclo delle Fondazioni (sempre di Asimov, ndr). Talmente curioso che mi toccherà abbonarmi ad Apple Tv Plus solo per questo”. E chissà cosa direbbe iCub, di questa debolezza così umana… 

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